Moriggi Luigi

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La poetica del gesto e le vie del colore. “Tutta l’arte di vivere si trova in un bel mescolarsi di lasciarsi andare e aggrapparsi”. Questo pensiero di Havelock Ellis ben si presta alla suggestione che ho provato ammirando i quadri di Luigi Moriggi. L’evidente dualismo che abita l’arte del pittore si percepisce ben chiaro come tensione tra finitezza e infinità. Un dualismo risolto in un’alternanza di forme geometriche e movimento, che si contendono lo spazio nell’immaginifica tessitura dell’astrattismo cromatico dominante in tutta l’opera. “Il movimento” del colore, del “gesto”, è strettamente legato a quello che il poeta Franco Loi definisce “emozione che nasce da moto” interiore; un moto che attraversa l’uomo e che corrisponde a un “fare” legato a un “sentire”, tipico degli artisti. L’arte, ogni arte, abita e si nutre di quel movimento e diventa il luogo della creatività, di ciò che inizialmente è oscuro e a cui si dà voce, a partire da quel moto spontaneo dell’anima. Anche la poesia, del resto (che prendo ad esempio perché è arte che mi appartiene), ha identica matrice, rappresenta anch’essa un volo, un’elevazione, un’ascesa per superare i limiti e i parametri dettati dalla ragione. L’arte di Luigi Moriggi si manifesta, nella maggior parte delle sue opere, come un volo repentino che, per tutta la sua durata, lascia traccia dell’abbrivio iniziale. Un gesto veloce che decide il percorso dei colori e la disposizione – in taluni casi – di frammenti di carta che tendono ad aggregarsi, a mescolarsi con le pennellate di colore, a fondersi dunque con la tela. La tecnica artistica e, oso dire, poetica di Luigi Moriggi sembra agire come uno strumento dinamico al servizio della Musa ispiratrice, di quel movimento delle mani che i Greci coniarono col termine tèchne, per l’appunto un fare, un’abilità, una destrezza. La tèchne come moto “necessario”, che diviene vertigine in un viaggio desideroso di sosta. Dunque: finitezza e infinità, forma e movimento: coppie di opposti in cerca di equilibrio. “…un poco come la vita, soprattutto come l’amore”, direbbe Goffredo Parise. Una tensione tra due estremi, un andare superando i limiti e un soffermarsi per fissare dei punti fermi. Uno “stato di emergenza” (Walter Benjamin) di un afflato ispiratore da una parte – che si mostra come frattura, deflagrazione, strappo – e, dall’altro, un’accurata geometria di colori embrionali. Una luce che ridefinisce lo spazio nel buio e cerca un senso nel caos. “Provare ad abbracciare complessità e caos”, dice l’autore della propria recente pittura. Ecco allora apparire le immagini sferiche del mondo avvolte da strisce che lo avvincono. La sfera, antica icona concettuale dell’universo, non sembra tuttavia alludere qui ad un rassicurante mondo parmenideo, immobile ed eterno, votato a risolvere in sé la molteplicità del reale svelandone l’apparenza ingannevole, la sua non-verità. La realtà, nell’opera di Moriggi, appare piuttosto pensata come un intrico di enti le cui relazioni sfuggono alla nostra capacità di comprendere, e che tuttavia ci vincola alle sue fattezze multiformi e imperscrutabili, inducendo nell’osservatore sensazioni di suggestiva tensione: non distogliamo facilmente lo sguardo da ciò che ci cattura. E non è un caso che le opere non abbiano titolo. Lo stesso autore dichiara che il titolo deve trovarlo chi osserva l’opera, a seconda delle sensazioni provate. Ed è vero: occorre misurarsi con il contributo dello spettatore, ci ricorda Duchamp: “l’atto creativo non è eseguito dal solo artista: lo spettatore porta l’opera a contatto con il mondo esterno decifrando e interpretando le sue qualità intrinseche, in tal modo aggiungendo il suo contributo all’atto creativo”. Due elementi, soprattutto, concorrono a generare un senso di armonico scompiglio dall’insieme delle opere. Il primo: corde colorate che sembrano avvolgere ogni cosa, come se la realtà non fosse un prodotto arbitrario del libero gioco del caso, ma di leggi trascendenti ancorché misteriose e, in quanto tali, tendenzialmente perturbanti. La stessa realtà che, osservata nelle sue strutture microscopiche, mostra quasi ovunque una tessitura che evoca la trama del DNA: filamenti simili ad alghe marine o, qui e là, a stalagmiti. Emana dall’insieme un’impressione complessiva di caos ben governato, rafforzata poi (questo il secondo elemento) dai colori adoperati: il bianco algido – ad esempio – sembra alludere ad un remoto paesaggio lunare, ma troviamo anche il rosso vivo, il giallo solare, il blu acceso ed anche il nero. In conclusione: l’uso del colore, che dovrebbe consentire all’artista, secondo le intenzioni dichiarate, di liberare l’istinto per affrancarsi sostanzialmente da un pregresso esprit de geometrie, in realtà sembra istituire un originale equilibrio tra il “vincolo geometrico” e un suggestivo anarchismo cromatico sottratto al controllo della “ragione regolativa”. Si intuisce ancora, a ben guardare, il richiamo (il bisogno?) di una regola ordinatrice nella sovrapposizione e stratificazione dei colori. Del resto, è lo stesso artista a dichiarare l’intento di voler pervenire ad una “riaggregazione di quelle stesse carte attraverso un ordine compositivo inedito”, dove la ricerca di un ordine non cessa di ispirare una pittura pur voluta, nei suoi più recenti esiti, come “libera, istintiva ed esplosiva” Ma proprio in questa tensione tra libertà e ordine, tra istintività e razionalità, risiede il fascino di questa collezione, il cui segno distintivo sembra in sintesi consistere nella ricerca (non ancora conclusa, per ammissione dello stesso autore) di un equilibrio tra “caso” e “necessità” come essenza del mondo e dove, tuttavia, l’arte rimane pur sempre una produzione di senso, una poiesis che usa come tramite i suoi diversi linguaggi. (Sonia Giovannetti)