Di Mauro Zaira

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“Il mio era un destino di artista, forse ancor prima di nascere. Magari, per entrambi i miei genitori, artisti mancati. Così sono diventata una scultrice di anime, oltre che un’autrice di opere. Infatti, sono anche una psicoterapeuta, disciplina che senz’altro vivo tra la scienza e l’arte. E poi, come non poteva essere altrimenti, faccio arte, frase che è sempre difficile da dire, perché definirsi artisti ha in ogni caso il sapore di un precipizio, come se fosse una parola impronunciabile. Da ragazza ero una promettente scultrice. La manipolazione era un canale privilegiato, tanto che da subito anche nella pittura avevo messo il mio impeto “grasso”, dalle pennellate piene di materia e spessore. Il mio maestro, Domenico Zora, mi aveva aiutato ad esprimere un mio stile particolare, fatto di steccate sporche e colli lunghi, uno sposalizio di linee forti e delicate, di sporcizia e leggerezza. Piano piano ho imparato a rompere la materia, sempre restando nel figurativo, a fare buchi, a guardare cosa ci fosse oltre il visibile, dietro le forme, alla ricerca di una realtà dietro la realtà data, ossessione che avevo da bambina. Nella pittura ho sempre avuto la mano pesante, appunto, scultorea. Ho attraversato vari linguaggi, prima le pennellate impressioniste, poi espressioniste, poi le forme tra il dramma e il “ridicule”, fino a sentire che il dramma, tutto sommato, è la parte di me che ho più interesse a raccontare. Motivo per cui ho scelto la psicoterapia come forma di scultura quotidiana, al di là della materia. Il cambio di rotta è avvenuto dopo il liceo artistico, dopo essere andata a bottega da Zora. Inaspettatamente, comunicai la mia decisione di andare all’Università, con un triste dissenso generale. Non mi era sufficiente fare arte, quello era certo, nella mia vita; volevo aiutare le persone a fare arte, la loro arte, ad esprimere la verità, la propria, il proprio genio, il proprio essere-nel-mondo. Ed è quello che faccio, ogni giorno, sui divani disposti sotto i miei quadri, come suggerimento a fare di questa vita il dramma che vogliamo. O lo sdramma, a seconda”.

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